La calma della Lanterna

Daniil Radchenko

Non credevo che un caffè potesse calmarmi così tanto, mentre l’amaro mi riempiva la bocca il calore mi riempiva il cuore. Non credevo in molte cose, ma dopo la notte scorsa mi trovo a rivalutarne tante. Sorseggiando lentamente ripensavo alla mia vita. Agli ultimi mesi passati in questa città ostile agli ospiti e alla mia lunga giornata, che finalmente trovava riposo in questa tazza piacevolmente amara. 

 

Trasferirsi a Genova per diventare capo reparto vendita nella sezione navale, un’occasione d’oro, dicevano. Promozione, aumento e un alloggio spesato per la mia permanenza. Sulla carta sembrava tutto più che ideale. Ovviamente accettai senza esitazione. Sciocco da parte mia. Sono stato in Liguria solo in vacanza da bambino. Momenti pieni di sole e di gioia, tra l’acqua del mare e cene a base di pesce che non mangiavo mai. Mi sono lasciato offuscare da quella nostalgia un po’ bambinesca e da una subconscia speranza di ritrovare quella gioia.

 

Ci volle poco per spezzare ogni mia illusione. L’appartamento era nel centro storico della città, comodamente non troppo lontano dall’ufficio. Peccato che il centro storico negli anni sia diventato un ghetto, tornare a casa dopo gli straordinari è sempre un’avventura. L’appartamento è angusto al quarto piano di un condominio d’epoca, senza ascensore. C’è una piacevole vista sul mare, sul porto in realtà, ma c’è mare in abbondanza quindi non posso lamentarmi. I miei vicini di casa sono una coppia di anziani. Non sono esattamente socievoli, lei ogni tanto mi saluta, ci scambiamo qualche chiacchiera di circostanza, lui comunica solo a versi, almeno questo è quello che deduco dalle poche volte che ho provato a interagirci. 

 

Ogni tanto, nei miei giorni liberi vago per la città. È incredibile come un luogo tanto serrato e stretto possa nascondere così tanti segreti. I parchi, le passeggiate, le infinite salite che rivelano panorami inattesi. Tutto così angusto. Tutto così celato. Tutto così diverso da quello a cui sono abituato. I miei amici dicono che sono fortunato e forse hanno ragione.

 

È il mio primo autunno a Genova, il tempo è cambiato drasticamente nel giro di una decina di giorni, nei primi mesi che sono venuto qui il sole non faceva altro che splendere cullandomi un po’ nella mia nostalgia. Ma ora l’autunno mi riporta alla realtà, in fondo nessuna città è immune al tempo.

 

Dalla finestra della stanza comune dei miei uffici si vede il faro, i locali lo chiamano la Lanterna, lo trovo poetico. Nelle mie pause caffè mi ritrovo spesso a rimirare questa sorta di guardiano luminoso della città, mi dà un inspiegabile senso di pace. 

Ieri ha piovuto tutto il giorno in maniera incessante, quasi da oscurare la Lanterna. Inutile dire che la giornata non era delle migliori, ero arrivato fradicio al lavoro e una buona parte dei colleghi si erano dati indisponibili. C’era una strana atmosfera nell’ufficio semideserto e la Lanterna coperta da una coltre d’acqua. Il continuo rumore della pioggia e la quiete dell’ufficio in qualche modo creavano un tempo sospeso, un’eternità. La giornata non è stata per niente produttiva, ma in cambio, per la prima volta, ho avuto l’opportunità di parlare un po’ di più con i miei colleghi. Solitamente è tutto molto professionale e sterile, ma questa pioggia ha portato a galla un sacco di cose.

 

Optai per lasciare andare a casa tutti un po’ prima, rimasi da solo a cercare di trovare la Lanterna celata, ma dopo scarsi risultati me ne andai anch’io.

 

Tornando a casa sotto l’assordante pioggia, proprio sotto il portone misi il piede in un torrentello che si era formato a bordo della strada, onestamente credevo che la giornata non potesse andare peggio di così. Salendo le scale a mia sorpresa trovai il mio vicino di casa che guardava fuori dalla finestra dell’androne. Lo sentii mormorare qualcosa sotto i suoi folti baffi, qualcosa come “Semo in a bratta” o simili, credo sia genovese. Appena si accorse della mia presenza si girò verso di me fissandomi con un sguardo duro e penetrante.

 

– Hai un paio di stivali di gomma? – Fu la prima frase in assoluto che gli sentii pronunciare.

– No.

– Male. Ti serviranno. – Non disse altro e rientrò nel suo appartamento.

La calma della Lanterna

Daniil Radchenko

Non credevo che un caffè potesse calmarmi così tanto, mentre l’amaro mi riempiva la bocca il calore mi riempiva il cuore. Non credevo in molte cose, ma dopo la notte scorsa mi trovo a rivalutarne tante. Sorseggiando lentamente ripensavo alla mia vita. Agli ultimi mesi passati in questa città ostile agli ospiti e alla mia lunga giornata, che finalmente trovava riposo in questa tazza piacevolmente amara. 

 

Trasferirsi a Genova per diventare capo reparto vendita nella sezione navale, un’occasione d’oro, dicevano. Promozione, aumento e un alloggio spesato per la mia permanenza. Sulla carta sembrava tutto più che ideale. Ovviamente accettai senza esitazione. Sciocco da parte mia. Sono stato in Liguria solo in vacanza da bambino. Momenti pieni di sole e di gioia, tra l’acqua del mare e cene a base di pesce che non mangiavo mai. Mi sono lasciato offuscare da quella nostalgia un po’ bambinesca e da una subconscia speranza di ritrovare quella gioia.

 

Ci volle poco per spezzare ogni mia illusione. L’appartamento era nel centro storico della città, comodamente non troppo lontano dall’ufficio. Peccato che il centro storico negli anni sia diventato un ghetto, tornare a casa dopo gli straordinari è sempre un’avventura. L’appartamento è angusto al quarto piano di un condominio d’epoca, senza ascensore. C’è una piacevole vista sul mare, sul porto in realtà, ma c’è mare in abbondanza quindi non posso lamentarmi. I miei vicini di casa sono una coppia di anziani. Non sono esattamente socievoli, lei ogni tanto mi saluta, ci scambiamo qualche chiacchiera di circostanza, lui comunica solo a versi, almeno questo è quello che deduco dalle poche volte che ho provato a interagirci. 

 

Ogni tanto, nei miei giorni liberi vago per la città. È incredibile come un luogo tanto serrato e stretto possa nascondere così tanti segreti. I parchi, le passeggiate, le infinite salite che rivelano panorami inattesi. Tutto così angusto. Tutto così celato. Tutto così diverso da quello a cui sono abituato. I miei amici dicono che sono fortunato e forse hanno ragione.

 

È il mio primo autunno a Genova, il tempo è cambiato drasticamente nel giro di una decina di giorni, nei primi mesi che sono venuto qui il sole non faceva altro che splendere cullandomi un po’ nella mia nostalgia. Ma ora l’autunno mi riporta alla realtà, in fondo nessuna città è immune al tempo.

 

Dalla finestra della stanza comune dei miei uffici si vede il faro, i locali lo chiamano la Lanterna, lo trovo poetico. Nelle mie pause caffè mi ritrovo spesso a rimirare questa sorta di guardiano luminoso della città, mi dà un inspiegabile senso di pace. 

Ieri ha piovuto tutto il giorno in maniera incessante, quasi da oscurare la Lanterna. Inutile dire che la giornata non era delle migliori, ero arrivato fradicio al lavoro e una buona parte dei colleghi si erano dati indisponibili. C’era una strana atmosfera nell’ufficio semideserto e la Lanterna coperta da una coltre d’acqua. Il continuo rumore della pioggia e la quiete dell’ufficio in qualche modo creavano un tempo sospeso, un’eternità. La giornata non è stata per niente produttiva, ma in cambio, per la prima volta, ho avuto l’opportunità di parlare un po’ di più con i miei colleghi. Solitamente è tutto molto professionale e sterile, ma questa pioggia ha portato a galla un sacco di cose.

 

Optai per lasciare andare a casa tutti un po’ prima, rimasi da solo a cercare di trovare la Lanterna celata, ma dopo scarsi risultati me ne andai anch’io.

 

Tornando a casa sotto l’assordante pioggia, proprio sotto il portone misi il piede in un torrentello che si era formato a bordo della strada, onestamente credevo che la giornata non potesse andare peggio di così. Salendo le scale a mia sorpresa trovai il mio vicino di casa che guardava fuori dalla finestra dell’androne. Lo sentii mormorare qualcosa sotto i suoi folti baffi, qualcosa come “Semo in a bratta” o simili, credo sia genovese. Appena si accorse della mia presenza si girò verso di me fissandomi con un sguardo duro e penetrante.

 

– Hai un paio di stivali di gomma? – Fu la prima frase in assoluto che gli sentii pronunciare.

– No.

– Male. Ti serviranno. – Non disse altro e rientrò nel suo appartamento.

non disse altro

e rientrò

                      nel suo

appartamento

Rientrai anch’io, accorgendomi che ero bagnato solo fino alle mutande. Poco male. La giornata finisce qui pensai. Una doccia calda, una cena preparata in casa per una volta, non avrei il coraggio di ordinare una consegna a domicilio adesso. Sprofondai nel divano cercando qualcosa da guardare, ma la doccia mi aveva cotto più del pollo che avevo preparato. Il collasso fu pressoché immediato.

 

Un rumore forte e schiamazzi mi svegliarono con una certa facilità, mi accorsi di essere ancora sul divano, nella stanza illuminata solo dalla tivù. Spensi il monitor, e mi approcciai ancora rintronato alla camera da letto, asciugandomi la bavetta nel buio. Mi ci volle qualche momento, ma capii che gli schiamazzi non venivano dal televisore. Brancolai nel buio fino alla finestra. Aprii per scoprire con mia grande sorpresa che la pioggia era finita, ma un intenso rumore d’acqua disturbava comunque la quiete notturna. Guardai giù, il cuore saltò un battito, un intenso torrente di fango e detriti sfregiava i muri di quei vicoli stretti. Non avevo mai assistito a niente del genere e credo che nessuno si aspetti mai di vederlo. Mi lanciai sulla porta d’ingresso. Uscendo, inciampai quasi su due stivali di gomma posati sul mio zerbino. La porta dei vicini era aperta, sentii la vecchietta parlare al telefono, la sua voce tremava. Come per istinto mi infilai gli stivali e scesi, non accorgendomi di essere ancora in pigiama. Avvicinandomi al primo piano sentii un battito pesante e costante. Era il mio vicino, stava montando una barriera sulla porta, l’acqua gli aveva sorpassato le caviglie, ma lui era impassibile. Gli chiesi come potessi aiutare. Senza esitazione mi spiegò come assisterlo. Riuscimmo a barricare la porta abbastanza da fermare l’acqua. Mi appoggiai fiacco al muro.

 

– Guarda che non è mica finita –  il vecchio sorrise, salì su per le scale e scese poco dopo con diversi secchi – nun l’è mica finia chi.

 

Passammo diverso tempo a cercare di drenare l’acqua come potevamo, lui aveva il solito musone eppure sembrava quasi nascondere un volto soddisfatto. Nel mentre chiacchierammo, mi parlò della sua vita, di come aveva conosciuto sua moglie proprio durante un’alluvione, del loro matrimonio, della famiglia, della guerra e di quanto è importante non darsi mai per vinti. Parlò un fluido mix di italiano e genovese, sarà per lo shock sarà per la stanchezza, ma mi sembrava di comprendere tutto ciò che diceva. Il discorso volse inevitabilmente su di me, sembrava sorprendentemente curioso e loquace. Chiese, rispose e diede consigli. Non ho idea di quanto tempo sia passato, ma sta di fatto che dalla finestrella sopra il portone la notte cominciò a schiarirsi e l’ingresso ora era solo qualche vaga pozzanghera e fango. Guardammo attentamente la nostra fatica.

 

– Per ora può andare. Ti vegni a pigiâ un cuppin de caffè?

– Volentieri. – Annuii sentendo solo caffè.

– Lo sai, magari ti t’è foesto ma ti gh’è o cuore de un zeineze.

 

Salimmo al piano e mi invitò a casa sua, urlò a sua moglie di preparare due caffè appena superata la soglia. La trovammo in cucina a guardare il TG locale che dava aggiornamenti sulle zone colpite e i danni causati. Mi fece accomodare e notai che portavamo ancora gli stivali sporchi di fango.

 

– Ti stan ben, dovresti tenerli.

– Eran di nostro figlio, non vive più con noi – aggiunse la signora porgendoci il caffè e lo zucchero.

– Ha una figlia, nostra nipote, che dovrebbe essere della tua età, potrei presentartela.

 

L’anziana tirò al marito un leggero schiaffetto sulla spalla, facendo una faccia indispettita. Lui rise soddisfatto. Annuii soltanto, allungando la mano verso il caffè. Non ci misi manco lo zucchero. Nero come la notte che avevamo appena vissuto e pieno di energie come l’uomo davanti a me. Feci un sorso e quel sapore famigliare mi sciolse ogni muscolo teso, la calma dopo la tempesta. Un faro, anzi, una Lanterna, che con la sua luce dona sicurezza anche nelle acque più nere.

Rientrai anch’io, accorgendomi che ero bagnato solo fino alle mutande. Poco male. La giornata finisce qui pensai. Una doccia calda, una cena preparata in casa per una volta, non avrei il coraggio di ordinare una consegna a domicilio adesso. Sprofondai nel divano cercando qualcosa da guardare, ma la doccia mi aveva cotto più del pollo che avevo preparato. Il collasso fu pressoché immediato.

 

Un rumore forte e schiamazzi mi svegliarono con una certa facilità, mi accorsi di essere ancora sul divano, nella stanza illuminata solo dalla tivù. Spensi il monitor, e mi approcciai ancora rintronato alla camera da letto, asciugandomi la bavetta nel buio. Mi ci volle qualche momento, ma capii che gli schiamazzi non venivano dal televisore. Brancolai nel buio fino alla finestra. Aprii per scoprire con mia grande sorpresa che la pioggia era finita, ma un intenso rumore d’acqua disturbava comunque la quiete notturna. Guardai giù, il cuore saltò un battito, un intenso torrente di fango e detriti sfregiava i muri di quei vicoli stretti. Non avevo mai assistito a niente del genere e credo che nessuno si aspetti mai di vederlo. Mi lanciai sulla porta d’ingresso. Uscendo, inciampai quasi su due stivali di gomma posati sul mio zerbino. La porta dei vicini era aperta, sentii la vecchietta parlare al telefono, la sua voce tremava. Come per istinto mi infilai gli stivali e scesi, non accorgendomi di essere ancora in pigiama. Avvicinandomi al primo piano sentii un battito pesante e costante. Era il mio vicino, stava montando una barriera sulla porta, l’acqua gli aveva sorpassato le caviglie, ma lui era impassibile. Gli chiesi come potessi aiutare. Senza esitazione mi spiegò come assisterlo. Riuscimmo a barricare la porta abbastanza da fermare l’acqua. Mi appoggiai fiacco al muro.

 

– Guarda che non è mica finita –  il vecchio sorrise, salì su per le scale e scese poco dopo con diversi secchi – nun l’è mica finia chi.

 

Passammo diverso tempo a cercare di drenare l’acqua come potevamo, lui aveva il solito musone eppure sembrava quasi nascondere un volto soddisfatto. Nel mentre chiacchierammo, mi parlò della sua vita, di come aveva conosciuto sua moglie proprio durante un’alluvione, del loro matrimonio, della famiglia, della guerra e di quanto è importante non darsi mai per vinti. Parlò un fluido mix di italiano e genovese, sarà per lo shock sarà per la stanchezza, ma mi sembrava di comprendere tutto ciò che diceva. Il discorso volse inevitabilmente su di me, sembrava sorprendentemente curioso e loquace. Chiese, rispose e diede consigli. Non ho idea di quanto tempo sia passato, ma sta di fatto che dalla finestrella sopra il portone la notte cominciò a schiarirsi e l’ingresso ora era solo qualche vaga pozzanghera e fango. Guardammo attentamente la nostra fatica.

 

– Per ora può andare. Ti vegni a pigiâ un cuppin de caffè?

– Volentieri. – Annuii sentendo solo caffè.

– Lo sai, magari ti t’è foesto ma ti gh’è o cuore de un zeineze.

 

Salimmo al piano e mi invitò a casa sua, urlò a sua moglie di preparare due caffè appena superata la soglia. La trovammo in cucina a guardare il TG locale che dava aggiornamenti sulle zone colpite e i danni causati. Mi fece accomodare e notai che portavamo ancora gli stivali sporchi di fango.

 

– Ti stan ben, dovresti tenerli.

– Eran di nostro figlio, non vive più con noi – aggiunse la signora porgendoci il caffè e lo zucchero.

– Ha una figlia, nostra nipote, che dovrebbe essere della tua età, potrei presentartela.

 

L’anziana tirò al marito un leggero schiaffetto sulla spalla, facendo una faccia indispettita. Lui rise soddisfatto. Annuii soltanto, allungando la mano verso il caffè. Non ci misi manco lo zucchero. Nero come la notte che avevamo appena vissuto e pieno di energie come l’uomo davanti a me. Feci un sorso e quel sapore famigliare mi sciolse ogni muscolo teso, la calma dopo la tempesta. Un faro, anzi, una Lanterna, che con la sua luce dona sicurezza anche nelle acque più nere.

error: Content is protected !!