Di corsa

Era in ritardo, ma stavolta solo di qualche minuto. Certo, meglio non esserlo al primo appuntamento. Il fatto è che ancora non ci credeva. Era andato tutto come al solito. Aveva cercato ogni scusa possibile per evitare di chiederglielo, come che non bisogna provarci con un collega o che avrebbe dovuto aspettare un momento meno incasinato, come se potesse arrivare. Aveva impiegato mesi per trovare il coraggio di farsi avanti, alla fine si convinse di non aver nulla da perdere. Poco prima di staccare il turno era andata da lui, così l’avrebbe rifiutata e tutto sarebbe finalmente tornato come prima. Invece, nonostante l’esitazione, la smorfia da attacco epilettico e la balbuzie da povera demente che potevano indurlo a chiamarle un’ambulanza, le ha risposto: “sì, volentieri”.

E così si erano messi d’accordo. Non subito, eh. Qualche giorno dopo, troppe emozioni in una volta causano l’infarto. Al suo sì era corsa via esaltatissima senza proporre quando o dove. A casa passò la sera a tormentarsi, doveva essergli sembrata scema e non sapeva se fosse il caso di scrivergli o meno. Scrisse invece alla sua migliore amica che le disse di piantarla con le pare, oltre a soffocarla di domande fino a tardi.

“Come si chiama? Lo conosco? Fa palestra? Sì, ma il numero di scarpe? Oh, tienimi aggiornata!” E via dicendo.

In fondo aveva ragione, preoccuparsi era inutile. Sicuramente le avrebbe detto che per il prossimo lustro aveva l’agenda piena.

 

Invece non accadde, anzi, alla prima pausa pranzo fu lui a proporle di vedersi sabato mattina in San Lorenzo per un caffè. Anche stavolta solita tiritera in cui il cervello non connette per diversi minuti e lui non sa se cercare aiuto. Però per il resto della settimana si era sentita invincibile. Non aveva mai ricevuto tante critiche dal suo capo come in quei giorni, era troppo distratta per lavorare tra l’esaltazione e il timore di fare una cazzata che mandasse tutto a ramengo. Fortuna che la sera poteva chattare con la sua amica e chiederle consigli. E così si era svegliata troppo tardi per prendere il treno, forse parlarle del tipo fino alle tre di mattina non era stata una grande idea. Di sabato, dall’estremo ponente, avrebbe dovuto aspettare quaranta minuti prima del prossimo. L’auto nel weekend era fuori discussione, restava la fermata della corriera a un quarto d’ora da casa, da cui sarebbe passata una corsa in due minuti.

Era sudata da far schifo e non si era truccata né cambiata: sfoggiava un outfit cinquanta per cento pigiama e cinquanta per cento tuta, coronato da occhiaie da babbuino. Ma ce l’aveva fatta e per una volta le era andata di culo che a Voltri ci fosse già un bus in partenza dal capolinea. Non che potesse evitare il ritardo, ormai. Poteva solo pensare a una scusa credibile da usare più tardi. Che non fosse un corteo funebre, l’aveva già usata e non è mai saggio ricorrere a trucchi di seconda mano. Forse avrebbe optato per lo zoo in fuga. Intanto la spregiudicata guida dell’autista che zigzagava tra le macchine e le buche stradali si facevano complici delle notti insonni tra ansia e pettegolezzi. Si era addormentata di nuovo.

Il conducente la svegliò scrollandola e causandole un infarto. Era l’unica rimasta sul bus e un pensiero atroce la colse.

– Quanto cazzo ho dormito?

– E io che ne so? Però devi scendere, non puoi stare qui.

Avrebbe voluto fosse tutto un sogno, anche la parte dell’appuntamento. Almeno il ragazzo non l’avrebbe odiata. Poi guardò il telefono, la schermata di blocco piena di notifiche di WhatsApp, fortuna che non era lui. Avrebbe raccontato più tardi alla sua amica che stava andando di merda, se si sbrigava era ancora in tempo. Aveva dormito su quel sedile di plastica solo venti minuti. Tutt’intorno a lei c’erano autobus a perdita d’occhio.

– Siamo in rimessa?

– Eh sì che siamo in rimessa. Allora te ne vai o no?

– Non andavamo a Caricamento?

– No, era un rimessa Cornigliano. Ci sono delle scritte luminose fuori che ti dicono il capolinea se le leggi, sai?

Non rispose e corse fuori, trenta secondi dopo era in vista della strada principale. Dieci secondi e un uno, vero stavolta, le sfrecciava davanti. Dando fondo alle poche energie rimaste riuscì a raggiungerlo, poi il semaforo tornò verde e fu di nuovo lasciata indietro. Fortunatamente il mezzo era guidato da un dio buono, che aveva notato nello specchietto la ragazza implorante e in lacrime. E così era di nuovo in pista. Avrebbe voluto congratularsi con quel campione di bontà per averla attesa, ma aveva appena sacrificato i polmoni e poi è vietato parlare al conducente. Finalmente a Dinegro, metro che si fa attendere per cinque eternità e poi piazza San Giorgio. Ultima corsa verso San Lorenzo e infine era seduta a un tavolino del caffè del Duomo.

Però lui non c’era. Non poteva essersene già andato, era in ritardo solo di qualche minuto. Ok, erano sessanta, ma si aggrappava alla speranza che fosse ancora lì, da qualche parte. Si alzò e iniziò a girare intorno agli avventori di quell’ormai tarda mattinata. Una vecchina che con mano tremante rovesciava più tè di quanto ne bevesse, dei lavoratori in pausa che risposero ai suoi sguardi ammiccando e due giovani studenti che facevano i compiti. Forse dentro, sì! Eccolo, seduto al bancone. Capelli neri, lisci, spalle larghe, postura leggermente scomposta. Leggeva il giornale mentre beveva una birra. Si lanciò senza esitare.

– Eccomi, vedo che hai già ordinato. Posso offrire io, per farmi perdonare il ritardo?

Ma certo, poi ti porto in un posto. È finora che mi giri attorno. L’ho notato sai?
Era sulla trentina, ben portati ma un po’ sbronzo. Il cobra tatuato in viso lo distingueva dal suo principe azzurro.

Io… scusi, c’è stato uno sbaglio…

Nessuno sbaglio tesoro. Vieni qui, non te ne pentirai.

Si alzò per afferrarle il polso, lei era già corsa fuori. Ormai lontana le veniva da piangere, più per essersi bruciata un’occasione che per l’ennesimo stronzo in cui s’imbatteva. Malinconica come il finale di “Via col vento” si avviò verso Brignole a piedi, non c’era fretta. Così intanto raccontava tutto con un vocale di venti minuti all’unica che poteva darle conforto. Già immaginava le parole di disprezzo che le sarebbero state rivolte lunedì, o almeno lo sperava. perché essere ignorata sarebbe stato peggio. Sul treno non riuscì ad addormentarsi, nonostante i sedili fossero più comodi che sul bus. Cercò di distrarsi coi social, ma nessun video di gattini riesce a penetrare la corazza della galleria di Brignole. Si ridusse così a guardare meme di seconda mano condivisi su vecchi gruppi, mentre i capelli si appiattivano contro il finestrino.

Appena uscita dal buio tunnel dell’autocommiserazione le era arrivato un messaggio. Da lui. Terrore. Era un vocale. Di due minuti, cazzo. Non ce l’aveva fatta ad aspettare lunedì, aveva sbroccato prima, evidentemente doveva sfogarsi. Due minuti di audio però è criminale. Se avessero iniziato a frequentarsi si sarebbe sempre dovuta sorbire tutte quelle chiacchiere? Probabilmente non era il ragazzo giusto e l’aveva appena scampata bella. Comunque si mise le cuffie per togliersi subito il pensiero.

Scusami tanto, arrivo tra dieci minuti. Sei ancora lì? Guarda mi è successo di tutto, c’era una processione funebre di animali fuggiti dallo zoo che bloccava la strada e..

Si gettò tra le porte del treno che si stavano chiudendo. Poi metro di Principe, che si fa attendere dieci eternità impiegate a mangiarsi le unghie. Era corsa nel vagone di testa, come se servisse ad arrivare prima. Lo vide in piazza San Giorgio, un paio di metri davanti a lei che correva verso la cattedrale. Nessuno sa dove avesse trovato l’energia di superarlo e pararglisi davanti, non aveva neanche il fiato per dire “ciao”. I due si guardarono per un po’ ridacchiando tra ampi respiri, senza fretta che tanto non avrebbero saputo che dire. Fu lui a parlare per primo.

– Scusa, sono un po’ in ritardo mi sa…

Ma va’. A proposito, ti spiace se cambiamo zona? Non mi piacciono molto i bar vicino alla cattedrale.

Era in ritardo, ma stavolta solo di qualche minuto. Certo, meglio non esserlo al primo appuntamento. Il fatto è che ancora non ci credeva. Era andato tutto come al solito. Aveva cercato ogni scusa possibile per evitare di chiederglielo, come che non bisogna provarci con un collega o che avrebbe dovuto aspettare un momento meno incasinato, come se potesse arrivare. Aveva impiegato mesi per trovare il coraggio di farsi avanti, alla fine si convinse di non aver nulla da perdere. Poco prima di staccare il turno era andata da lui, così l’avrebbe rifiutata e tutto sarebbe finalmente tornato come prima. Invece, nonostante l’esitazione, la smorfia da attacco epilettico e la balbuzie da povera demente che potevano indurlo a chiamarle un’ambulanza, le ha risposto: “sì, volentieri”.

E così si erano messi d’accordo. Non subito, eh. Qualche giorno dopo, troppe emozioni in una volta causano l’infarto. Al suo sì era corsa via esaltatissima senza proporre quando o dove. A casa passò la sera a tormentarsi, doveva essergli sembrata scema e non sapeva se fosse il caso di scrivergli o meno. Scrisse invece alla sua migliore amica che le disse di piantarla con le pare, oltre a soffocarla di domande fino a tardi. “Come si chiama? Lo conosco? Fa palestra? Sì, ma il numero di scarpe? Oh, tienimi aggiornata!” E via dicendo.  In fondo aveva ragione, preoccuparsi era inutile. Sicuramente le avrebbe detto che per il prossimo lustro aveva l’agenda piena.

Invece non accadde, anzi, alla prima pausa pranzo fu lui a proporle di vedersi sabato mattina in San Lorenzo per un caffè. Anche stavolta solita tiritera in cui il cervello non connette per diversi minuti e lui non sa se cercare aiuto. Però per il resto della settimana si era sentita invincibile. Non aveva mai ricevuto tante critiche dal suo capo come in quei giorni, era troppo distratta per lavorare tra l’esaltazione e il timore di fare una cazzata che mandasse tutto a ramengo. Fortuna che la sera poteva chattare con la sua amica e chiederle consigli. E così si era svegliata troppo tardi per prendere il treno, forse parlarle del tipo fino alle tre di mattina non era stata una grande idea. Di sabato, dall’estremo ponente, avrebbe dovuto aspettare quaranta minuti prima del prossimo. L’auto nel weekend era fuori discussione, restava la fermata della corriera a un quarto d’ora da casa, da cui sarebbe passata una corsa in due minuti.

Era sudata da far schifo e non si era truccata né cambiata: sfoggiava un outfit cinquanta per cento pigiama e cinquanta per cento tuta, coronato da occhiaie da babbuino. Ma ce l’aveva fatta e per una volta le era andata di culo che a Voltri ci fosse già un bus in partenza dal capolinea. Non che potesse evitare il ritardo, ormai. Poteva solo pensare a una scusa credibile da usare più tardi. Che non fosse un corteo funebre, l’aveva già usata e non è mai saggio ricorrere a trucchi di seconda mano. Forse avrebbe optato per lo zoo in fuga. Intanto la spregiudicata guida dell’autista che zigzagava tra le macchine e le buche stradali si facevano complici delle notti insonni tra ansia e pettegolezzi. Si era addormentata di nuovo.

Il conducente la svegliò scrollandola e causandole un infarto. Era l’unica rimasta sul bus e un pensiero atroce la colse.

Quanto cazzo ho dormito?

E io che ne so? Però devi scendere, non puoi stare qui.

Avrebbe voluto fosse tutto un sogno, anche la parte dell’appuntamento. Almeno il ragazzo non l’avrebbe odiata. Poi guardò il telefono, la schermata di blocco piena di notifiche di WhatsApp, fortuna che non era lui. Avrebbe raccontato più tardi alla sua amica che stava andando di merda, se si sbrigava era ancora in tempo. Aveva dormito su quel sedile di plastica solo venti minuti. Tutt’intorno a lei c’erano autobus a perdita d’occhio.

Siamo in rimessa?

Eh sì che siamo in rimessa. Allora te ne vai o no?

Non andavamo a Caricamento?

No, era un rimessa Cornigliano. Ci sono delle scritte luminose fuori che ti dicono il capolinea se le leggi, sai?

Non rispose e corse fuori, trenta secondi dopo era in vista della strada principale. Dieci secondi e un uno, vero stavolta, le sfrecciava davanti. Dando fondo alle poche energie rimaste riuscì a raggiungerlo, poi il semaforo tornò verde e fu di nuovo lasciata indietro. Fortunatamente il mezzo era guidato da un dio buono, che aveva notato nello specchietto la ragazza implorante e in lacrime. E così era di nuovo in pista. Avrebbe voluto congratularsi con quel campione di bontà per averla attesa, ma aveva appena sacrificato i polmoni e poi è vietato parlare al conducente. Finalmente a Dinegro, metro che si fa attendere per cinque eternità e poi piazza San Giorgio. Ultima corsa verso San Lorenzo e infine era seduta a un tavolino del caffè del Duomo.

Però lui non c’era. Non poteva essersene già andato, era in ritardo solo di qualche minuto. Ok, erano sessanta, ma si aggrappava alla speranza che fosse ancora lì, da qualche parte. Si alzò e iniziò a girare intorno agli avventori di quell’ormai tarda mattinata. Una vecchina che con mano tremante rovesciava più tè di quanto ne bevesse, dei lavoratori in pausa che risposero ai suoi sguardi ammiccando e due giovani studenti che facevano i compiti. Forse dentro, sì! Eccolo, seduto al bancone. Capelli neri, lisci, spalle larghe, postura leggermente scomposta. Leggeva il giornale mentre beveva una birra. Si lanciò senza esitare.

Eccomi, vedo che hai già ordinato. Posso offrire io, per farmi perdonare il ritardo?

Ma certo, poi ti porto in un posto. È finora che mi giri attorno. L’ho notato sai?
Era sulla trentina, ben portati ma un po’ sbronzo. Il cobra tatuato in viso lo distingueva dal suo principe azzurro.

Io… scusi, c’è stato uno sbaglio…

Nessuno sbaglio tesoro. Vieni qui, non te ne pentirai.

Si alzò per afferrarle il polso, lei era già corsa fuori. Ormai lontana le veniva da piangere, più per essersi bruciata un’occasione che per l’ennesimo stronzo in cui s’imbatteva. Malinconica come il finale di “Via col vento” si avviò verso Brignole a piedi, non c’era fretta. Così intanto raccontava tutto con un vocale di venti minuti all’unica che poteva darle conforto. Già immaginava le parole di disprezzo che le sarebbero state rivolte lunedì, o almeno lo sperava. perché essere ignorata sarebbe stato peggio. Sul treno non riuscì ad addormentarsi, nonostante i sedili fossero più comodi che sul bus. Cercò di distrarsi coi social, ma nessun video di gattini riesce a penetrare la corazza della galleria di Brignole. Si ridusse così a guardare meme di seconda mano condivisi su vecchi gruppi, mentre i capelli si appiattivano contro il finestrino.

Appena uscita dal buio tunnel dell’autocommiserazione le era arrivato un messaggio. Da lui. Terrore. Era un vocale. Di due minuti, cazzo. Non ce l’aveva fatta ad aspettare lunedì, aveva sbroccato prima, evidentemente doveva sfogarsi. Due minuti di audio però è criminale. Se avessero iniziato a frequentarsi si sarebbe sempre dovuta sorbire tutte quelle chiacchiere? Probabilmente non era il ragazzo giusto e l’aveva appena scampata bella. Comunque si mise le cuffie per togliersi subito il pensiero.

Scusami tanto, arrivo tra dieci minuti. Sei ancora lì? Guarda mi è successo di tutto, c’era una processione funebre di animali fuggiti dallo zoo che bloccava la strada e..

Si gettò tra le porte del treno che si stavano chiudendo. Poi metro di Principe, che si fa attendere dieci eternità impiegate a mangiarsi le unghie. Era corsa nel vagone di testa, come se servisse ad arrivare prima. Lo vide in piazza San Giorgio, un paio di metri davanti a lei che correva verso la cattedrale. Nessuno sa dove avesse trovato l’energia di superarlo e pararglisi davanti, non aveva neanche il fiato per dire “ciao”. I due si guardarono per un po’ ridacchiando tra ampi respiri, senza fretta che tanto non avrebbero saputo che dire. Fu lui a parlare per primo.

– Scusa, sono un po’ in ritardo mi sa…

Ma va’. A proposito, ti spiace se cambiamo zona? Non mi piacciono molto i bar vicino alla cattedrale.

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